Esperienze in Camera Oscura

Fa parte di quegli “effetti speciali” utilizzati dai grafici per rendere atmosfere particolari ad alcune immagini e i Soci del Fotoclub, in una delle serate di ritrovo, si sono cimentati anche in questa esperienza con ottimi risultati.


La cianotipia è un antico metodo di stampa fotografica caratterizzata dal tipico colore Blu di Prussia (il nome deriva dal greco antico kyanos, “blu”).
Lo scienziato e astronomo inglese Sir John Herschel inventò questo procedimento nel 1842, a pochi anni dal varo della fotografia da parte di William Fox Talbot in Gran Bretagna e Louis Daguerre in Francia.
Mentre i sistemi ideati da Talbot e Daguerre sfruttavano la fotosensibilità dei sali d’argento, il processo messo a punto da Herschel si basava su alcuni sali di ferro, precisamente il ferricianuro di potassio e il citrato ferrico ammoniacale. Questi due sali, mescolati assieme, sono molto sensibili e reagiscono quando posti di fronte alla luce di tipo solare. Frapponendo un negativo tra la luce ultravioletta e un foglio di carta su cui è stata applicata la soluzione ai sali ferrici, si produce un’immagine fotografica.
Il cianotipo è rimasto famoso nella storia della fotografia anche perché venne sfruttato pochi anni dopo la sua scoperta da Anna Atkins, considerata da molti la prima donna fotografa della storia. Lo stesso procedimento di stampa, grazie alla sua versatilità, è rimasto in uso, oltre che in fotografia anche come processo grafico per la riproduzione di disegni tecnici e di planimetrie, almeno fino agli anni quaranta del XX secolo. In queste applicazioni, sia pure nelle sue varianti, il procedimento ha preso anche il nome di cianografia o di “blueprint”.

Effetto seppia à gogo!

Conosciamo tutti l’effetto visivo dal sapore un po’ nostalgico del viraggio in fotografia. Chi a casa non ha un album di famiglia o la classica scatola di cartone magari un po’ sgangherata perché piena di ricordi: cartoline, lettere e appunto di vecchie fotografie dai toni seppiati? Era, infatti, l’effetto seppia quello più diffuso fino agli anni cinquanta del novecento, viraggio, detto in gergo, che si otteneva tramite un apposito bagno effettuato in camera oscura.
Lo scopo, come sappiamo, prima di essere estetico, era pratico perché quel procedimento chimico, fermando l’ossidazione dei sali d’argento, garantiva una lunga vita alla stampa così ottenuta.
E’ per questo che quelle vecchie foto dei nonni conservate gelosamente sono ancora lì, belle e vivide, dopo ottanta, cento e più anni e chissà per quante generazioni ancora.
È in questo desiderio di riscoperta delle antiche tecniche di stampa che il nostro gruppo di lavoro, anche per divertimento, ha provato a ottenere su stampe recenti un risultato molto simile, paragonabile esteticamente al viraggio chimico vero e proprio, semplicemente mediante un’accorta velatura al tè – sì avete letto bene proprio al tè – eseguita alla fine – direttamente sulla stampa.
Suggeriamo, per chi volesse provare questa semplice tecnica di velatura, di eseguirla su carte politenate che sono protette da un sottilissimo velo plastico poiché su cartoncini baritati, l’uso di liquidi come il tè, sebbene totalmente naturali, potrebbe col tempo generare delle “macchie” indesiderate che condizionerebbero la perfetta conservazione della stampa stessa.
Insomma: prendetevi una buona tazza di tè, senza zucchero prego!
Pennello, mano ferma, concentrazione e.. buon lavoro!
N.B.: La digitalizzazione non rende giustizia del risultato ottenuto, un delicato “effetto seppia”, ben visibile invece sulla stampa dell’immagine di esempio, qui riportata, ripresa sul Lago di Endine.

Effetti “speciali”: il bassorilievo

Il “bassorilievo” è’ un effetto che crea l’illusione ottica della tridimensionalità, ma viene spesso adoperato anche per ottenere dei grafismi molto particolari. E’ una delle tecniche di “effetto” realizzabili in camera oscura e le immagini più tipiche sono quelle in B/N. L’effetto si ottiene sovrapponendo due immagini perfettamente identiche, una positiva e una negativa, leggermente sfalsate l’una rispetto all’altra (se si mettessero perfettamente sovrapposte, il risultato sarebbe una stampa completamente nera).
Per ottenere buoni risultati si utilizzano solitamente pellicole lith.


Cos’è la pellicola lith? Semplicemente una pellicola bianconero ad alto contrasto con la caratteristica di non avere la “maschera” (il fondo grigio tipico delle pellicole bianconero) e di essere ortocromatica ossia di poter essere maneggiata, esposta e sviluppata senza problemi in camera oscura con la luce rossa accesa, esattamente come la carta da stampa.


Se si parte da un qualsiasi negativo (ma, attenzione, qualche prova è d’obbligo perché non tutti i soggetti vanno bene) lo si stampa dapprima delle dimensioni volute su pellicole lith di grande formato (p.es. 4×5″ -10,2×12,7 cm) ottenendo una dia (immagine positiva, quindi) in bianconero ad alto contrasto.
Una volta fatta la dia su lith, si stampa quest’ultima a contatto su un’altra lastra, ottenendo un negativo con la stessa immagine anch’essa ad alto contrasto.
A questo punto basta sovrapporre queste due pellicole (dia e negativo) e poi sfalsarle leggermente per vedere subito l’effetto bassorilievo. Non esistono regole per stabilire di quanto spostare le due immagini o in che direzione farlo ma ci si può divertire a fare delle prove dato che si possono vedere direttamente i risultati.
Stampando il “sandwich”, si potrà avere un’immagine che sembra quasi disegnata su un foglio bianco ma, variando la densità delle due immagini o il grado di contrasto, si potranno ottenere infinite varianti.
Si può ovviamente applicare la stessa procedura al colore utilizzando una pellicola invertibile ad alto contrasto.

Se si parte invece da una dia il primo passaggio non servirà dato che si dispone già del positivo necessario e basterà quindi ottenere un negativo identico; per fare ciò si potrà, utilizzandola al contrario, usare una pellicola nata per realizzare diapositive da pellicole negative come la Kodak Vericolor Slide. Si potrà sovraesporre il “sandwich” sino ad ottenere delle delicatissime sfumature, oppure sottoesporre ed aggiungere qualche filtro durante la duplicazione; una maschera di colore arancio potrà, per esempio, servire ad aggiungere effetti molto particolari.

Effetti “speciali”: solarizzazione e pseudo-solarizzazione

E’ opportuno precisare innanzitutto le definizioni:

– la “solarizzazione” propriamente detta, descritta per la prima volta da Daguerre nel 1831, è l’effetto ottenuto da un’esasperata sovra-esposizione (almeno mille volte quella corretta) della pellicola in fase di ripresa, praticamente impossibile da ottenere con le normali pellicole attuali.

– la “pseudo-solarizzazione” o “effetto Sabattier”, perché descritta per la prima volta da Armand Sabattier nel 1862, è invece l’effetto ottenuto in camera oscura tramite opportuna esposizione della pellicola o carta durante la fase di sviluppo per una reazione chimica dell’argento che si trova.  Quando oggi si parla di “solarizzazione” ci si riferisce invece normalmente a un’immagine ottenuta con ”effetto Sabattier”.

Ecco un esempio di procedimento per una stampa b/n “pseudo-solarizzata” partendo da un normale negativo: – si sceglie una carta sensibile leggermente più dura di quella che si usa normalmente; – si espone la stampa per circa due terzi del tempo normale; – si sviluppa per due terzi del tempo regolare di sviluppo (rivelatore fresco e un po’ più concentrato); – si lava la stampa per 10 sec. e poi si asciuga, tamponando con una spugna pulita; – si espone la stampa a luce bianca (15 watt) per 1 sec. circa a 1 metro; – si completa lo sviluppo ottenendo la “pseudo-solarizzazione” (senza muovere la carta mentre fra le zone di diversa densità compare una sottile linea grigia, detta linea di Mackie); – si effettua rapidamente un efficace fissaggio.
La “linea di Mackie” si forma per la maggiore concentrazione di ioni di bromuro lungo la linea che separa una zona sviluppata da una che si sta sviluppando: il bromuro ritarda lo sviluppo lungo questa separazione formando una linea più o meno chiara che manca del tutto nella vera solarizzazione
L’effetto ottenuto come sopra descritto non garantisce però la sua perfetta ripetibilità sulle stampe successive perciò, se si vuole avere la possibilità di replicare la stessa stampa in più copie identiche, bisogna creare un duplicato “pseudo-solarizzato” del negativo sviluppato normalmente e meglio se su lastra di grande formato da sviluppare in bacinella e con pellicola ortocromatica in modo da poter controllare l’effetto in luce rossa.
Utilizzando i duplicati è perciò possibile partire da qualsiasi negativo o diapositiva del proprio archivio. Si potrebbe anche  “pseudo-solarizzare” al buio una pellicola in fase di primo sviluppo, ma il rischio di non ottenere un risultato soddisfacente e quindi dover ripetere la ripresa, è alquanto elevato e quindi sconsigliato.
Si possono ottenere risultati diversi a seconda che si usino pellicole o carte fotografiche normali o ad alto contrasto, ma particolarmente importante è saper scegliere prima di tutto delle immagini adeguate e un negativo (o diapositiva) di partenza che abbia i particolari chiari e nitidi.
La “pseudo-solarizzazione” è particolarmente efficace, e oggi principalmente usata, su immagini in b/n, ma è anche molto suggestiva utilizzando le pellicole a colori con le quali si produce un effetto simile a quello di posterizzazione (con colori diversi da quelli originali e sempre molto saturi) e inoltre, utilizzando luce colorata per la nuova esposizione alla luce della pellicola sviluppata solo parzialmente, le combinazioni e gli effetti ottenibili sono veramente infiniti
L’”effetto Sabattier” fu sfruttato con successo come tecnica fotografica, per la prima volta in modo sistematico, da Man Ray, il grande protagonista dell’arte di avanguardia del primo Novecento.

Effetti “speciali”: il Viraggio

Aver pubblicato recentemente delle foto storiche, riporta alla mente un particolare effetto presente su di esse.
Il viraggio è un procedimento chimico che conferisce alla stampa fotografica una particolare tonalità, grazie a bagni appositi; il viraggio, molto usato fino all’inizio del ‘900, aveva originariamente la sola funzione di garantire una migliore conservazione e stabilità nel tempo all’immagine stampata.
Il principio di funzionamento del viraggio è molto semplice: l’argento contenuto nella stampa, non essendo un metallo nobile, tende ad alterarsi per la presenza nell’atmosfera di idrogeno solfato, trasformandosi in solfuro d’argento (di colore scuro); come un qualsiasi oggetto di argento lasciato all’aria aperta, che nel giro anche di poco tempo, diventa sporco con zone marroncine, anche sulle fotografie, per quanto siano stampate correttamente, nel tempo si creeranno delle macchie, in particolare nelle parti più chiare delle foto. Un tipo di viraggio realizza anticipatamente quella reazione chimica di trasformazione dell’argento in solfuro d’argento sull’intera fotografia evitando che il tempo effettui la reazione chimica solo su alcune parti della stessa.
Il procedimento del viraggio fu usato anche in cinematografia ai tempi del muto ma la tecnica venne abbandonata alla fine degli anni venti poiché pregiudicava la resa del sonoro.
Il viraggio è oggi usato in particolare per ottenere particolari effetti estetici. Il più diffuso e noto è il viraggio seppia, usato per dare all’immagine un sapore “d’epoca”, ma esistono vari tipi di viraggi dipendenti dalle sostanze usate: viraggio al selenio e all’oro (tra i più diffusi nella fine-art), ai ferrocianuri (cadmio, cobalto, ferro, nichel, rame, titanio, uranile), e al platino.
Il viraggio può essere compiuto alla luce diurna con qualsiasi stampa in b/n che sia stata ben trattata e lavata perché, sia che si parli di viraggio di intonazione che di conservazione, vi è, comunque, sempre la necessità che la stampa di partenza sia fissata e lavata a regola d’arte.
Il normale procedimento consiste in due bagni successivi: prima lo “sbianca”, che prepara al bagno successivo (è simile all’indebolitore di Farmer, ma molto più concentrato) e poi la “solfurazione”, con cui lo zolfo si fissa all’argento metallico, dando un’intonazione bruno-marroncina.
I metodi variano a seconda dei corredi. Si può consigliare per esempio il corredo Ornano, composto da due buste:
– la busta n.1 contiene il composto chimico da diluire in un rapporto 1-35, 1-40 che serve per schiarire l’immagine nel primo bagno (“sbianca”). Normalmente si utilizza del ferrocianuro di potassio (10 gr/per litro) unito a del bromuro di potassio (25gr/per litro). La soluzione potrebbe essere usata più volte poiché non subisce un vero processo di invecchiamento.
– la busta n.2 contiene il composto chimico da diluire in un rapporto 1-10/1-15 di solfuro di sodio (1 litro di acqua, 10-15gr di solfuro di sodio) che serve per variare l’intonazione (che può essere seppia, blu, rossa, verde o arancio).
La stampa prenderà l’intonazione scelta immergendola sbiancata nel bagno di viraggio fino all’intonazione desiderata. Variando le diluizioni, sia nello “sbianca” che nella “solfurazione”, si può modificare la profondità del viraggio: una diluizione maggiore dello sbianca permetterà di sbiancare “di meno” la stampa iniziale facendo in modo che il secondo bagno agisca, producendo l’effetto seppia, solo sui colori più tenui senza modificare quelli più scuri; quando la colorazione è molto lieve si parlerà più propriamente di “variazione di intonazione” anziché “viraggio”.
Esiste la possibilità di preparare un terzo bagno, un anti-sbianca, detto anche riducente, il cui scopo è di contrastare lo sbianca, nel caso questo risultasse eccessivo. La sua preparazione è semplice: serve la soluzione di sviluppo per carte fotografiche con una diluizione in acqua pari a 1-1 o 1-2.
La fotografia, tolta dal bagno, deve essere poi solo correttamente essiccata.