le buone “riletture”…

Ai Soci frequentatori che mostrano sovente interesse per la raccolta di libri che arricchiscono la sede del Club di nuovi volumi e scritti storici, si consiglia questo mese la eventuale rilettura di due interessantissimi manuali storici dai quali è sempre possibile, con l’andare della propria esperienza, ricavare suggerimenti ed espedienti che, alla prima lettura di qualche anno fa, potevano essere sfuggiti.


Esperienze in Camera Oscura

Fa parte di quegli “effetti speciali” utilizzati dai grafici per rendere atmosfere particolari ad alcune immagini e i Soci del Fotoclub, in una delle serate di ritrovo, si sono cimentati anche in questa esperienza con ottimi risultati.


La cianotipia è un antico metodo di stampa fotografica caratterizzata dal tipico colore Blu di Prussia (il nome deriva dal greco antico kyanos, “blu”).
Lo scienziato e astronomo inglese Sir John Herschel inventò questo procedimento nel 1842, a pochi anni dal varo della fotografia da parte di William Fox Talbot in Gran Bretagna e Louis Daguerre in Francia.
Mentre i sistemi ideati da Talbot e Daguerre sfruttavano la fotosensibilità dei sali d’argento, il processo messo a punto da Herschel si basava su alcuni sali di ferro, precisamente il ferricianuro di potassio e il citrato ferrico ammoniacale. Questi due sali, mescolati assieme, sono molto sensibili e reagiscono quando posti di fronte alla luce di tipo solare. Frapponendo un negativo tra la luce ultravioletta e un foglio di carta su cui è stata applicata la soluzione ai sali ferrici, si produce un’immagine fotografica.
Il cianotipo è rimasto famoso nella storia della fotografia anche perché venne sfruttato pochi anni dopo la sua scoperta da Anna Atkins, considerata da molti la prima donna fotografa della storia. Lo stesso procedimento di stampa, grazie alla sua versatilità, è rimasto in uso, oltre che in fotografia anche come processo grafico per la riproduzione di disegni tecnici e di planimetrie, almeno fino agli anni quaranta del XX secolo. In queste applicazioni, sia pure nelle sue varianti, il procedimento ha preso anche il nome di cianografia o di “blueprint”.

Avveniva negli anni ’70…

Anche la mitica Scuola Radio Elettra, fondata a Torino nel 1951, partecipò negli anni ’70 alla divulgazione delle tecniche di ripresa fotografiche in Italia. Nei ricordi di molti appassionati si ritrovano i sei libri del corso, i materiali per lo preparazione di base di una camera oscura e per lo sviluppo e stampa di negativi. Tra i vari corsi per corrispondenza (radio, televisione, elettrotecnica e perfino dattilografia) in quegli anni fu varato anche il Corso di Fotografia che insegnò a molti connazionali i primi, indispensabili e importantissimi passi per scoprire il magico mondo della fotografia.
Una simpatica ricostruzione di quegli anni (relativa però al Corso Radio) si trova al link Scuola Radio Elettra: i miei ricordi.

Effetti “speciali”: solarizzazione e pseudo-solarizzazione

E’ opportuno precisare innanzitutto le definizioni:

– la “solarizzazione” propriamente detta, descritta per la prima volta da Daguerre nel 1831, è l’effetto ottenuto da un’esasperata sovra-esposizione (almeno mille volte quella corretta) della pellicola in fase di ripresa, praticamente impossibile da ottenere con le normali pellicole attuali.

– la “pseudo-solarizzazione” o “effetto Sabattier”, perché descritta per la prima volta da Armand Sabattier nel 1862, è invece l’effetto ottenuto in camera oscura tramite opportuna esposizione della pellicola o carta durante la fase di sviluppo per una reazione chimica dell’argento che si trova.  Quando oggi si parla di “solarizzazione” ci si riferisce invece normalmente a un’immagine ottenuta con ”effetto Sabattier”.

Ecco un esempio di procedimento per una stampa b/n “pseudo-solarizzata” partendo da un normale negativo: – si sceglie una carta sensibile leggermente più dura di quella che si usa normalmente; – si espone la stampa per circa due terzi del tempo normale; – si sviluppa per due terzi del tempo regolare di sviluppo (rivelatore fresco e un po’ più concentrato); – si lava la stampa per 10 sec. e poi si asciuga, tamponando con una spugna pulita; – si espone la stampa a luce bianca (15 watt) per 1 sec. circa a 1 metro; – si completa lo sviluppo ottenendo la “pseudo-solarizzazione” (senza muovere la carta mentre fra le zone di diversa densità compare una sottile linea grigia, detta linea di Mackie); – si effettua rapidamente un efficace fissaggio.
La “linea di Mackie” si forma per la maggiore concentrazione di ioni di bromuro lungo la linea che separa una zona sviluppata da una che si sta sviluppando: il bromuro ritarda lo sviluppo lungo questa separazione formando una linea più o meno chiara che manca del tutto nella vera solarizzazione
L’effetto ottenuto come sopra descritto non garantisce però la sua perfetta ripetibilità sulle stampe successive perciò, se si vuole avere la possibilità di replicare la stessa stampa in più copie identiche, bisogna creare un duplicato “pseudo-solarizzato” del negativo sviluppato normalmente e meglio se su lastra di grande formato da sviluppare in bacinella e con pellicola ortocromatica in modo da poter controllare l’effetto in luce rossa.
Utilizzando i duplicati è perciò possibile partire da qualsiasi negativo o diapositiva del proprio archivio. Si potrebbe anche  “pseudo-solarizzare” al buio una pellicola in fase di primo sviluppo, ma il rischio di non ottenere un risultato soddisfacente e quindi dover ripetere la ripresa, è alquanto elevato e quindi sconsigliato.
Si possono ottenere risultati diversi a seconda che si usino pellicole o carte fotografiche normali o ad alto contrasto, ma particolarmente importante è saper scegliere prima di tutto delle immagini adeguate e un negativo (o diapositiva) di partenza che abbia i particolari chiari e nitidi.
La “pseudo-solarizzazione” è particolarmente efficace, e oggi principalmente usata, su immagini in b/n, ma è anche molto suggestiva utilizzando le pellicole a colori con le quali si produce un effetto simile a quello di posterizzazione (con colori diversi da quelli originali e sempre molto saturi) e inoltre, utilizzando luce colorata per la nuova esposizione alla luce della pellicola sviluppata solo parzialmente, le combinazioni e gli effetti ottenibili sono veramente infiniti
L’”effetto Sabattier” fu sfruttato con successo come tecnica fotografica, per la prima volta in modo sistematico, da Man Ray, il grande protagonista dell’arte di avanguardia del primo Novecento.

una sera, un ritrovo al Fotoclub

Sembra proprio così… ogni volta che ci si ritrova al nostro Circolo emerge sempre qualche idea nuova… c’è sempre qualche Socio che lancia un suo “perché non proviamo a...” o “vediamo cosa succede se...”. In una sera, a caso, fu il nostro presidente, noto frequentatore di stampe-900-le-lastremercatini delle antichità, a portare con sé alcune lastre in vetro risalenti ai primi del ‘900, ovviamente in b/n e di vari formati dal 6×9 al 9×12. Subito la curiosità divampa e la voglia di vedere attraverso gli occhi di quegli antichi fotografi e di ripercorrere i modi con i quali fecero emergere delle immagini giunte fino a noi non si fa attendere. E allora via subito tutti in camera oscura affinché i “contatti” possano riprendere vita; suddivisi rapidamente i compiti, si prepara il rivelatore (Ilford 1+9) il bagno d’arresto (Ilford 1+19) e il fissaggio (Illford 1+9 a 20°). Si sceglie la carta multigrade (Ilford IV) e la filtratura (yellow 62, magenta 12, cyan 00). Via subito con provini e stampe a contatto: esposizione a 45″, rivelatore a 20° per 1′ e 30″, arresto 30″, fissaggio 3″, lavaggio 10″, essicamento 10″ per ritratti e gruppi mentre per i paesaggi si preferisce 15″ di esposizione e il tutto utilizzando carta a superficie lucida e un ingranditore Durst605 color con testa a luce alogena a colore e un temporizzatore Philips. Il risultato, di cui alcuni esempi, non tarda a palesarsi e grande è la sorpresa per tutti e la soddisfazione di aver riportato alla luce immagini di un periodo storico utilizzando un processo chimico tradizionale, come lo fecero i nostri avi, semplicemente attualizzato ai nostri giorni.

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Camera oscura: l’importanza del “provino a contatto”

I provini a contatto sono il risultato di una stampa di pellicola di negativi nelle loro dimensioni originali; ciò si ottiene in camera oscura mettendo direttamente “a contatto” i negativi stessi con la carta sensibile e poi esponendo il “sandwich” ad una sorgente di luce come, ad esempio, quella di un ingranditore per un tempo determinato. Si possono utilizzare all’uopo diversi metodi empirici ma la cosa più importante è che sia assicurato il massimo contatto tra i negativi (il lato emulsionato, quello opaco) e il lato emulsionato della carta. Per fare questo basterebbe una lastra di vetro da mettere sopra i negativi (magari posti in fogli porta-negativi trasparenti) per tenerli in posizione, ma il ricorso a uno stampatore a contatto della Paterson assicura maggior velocità e precisione della manovra. Dopo aver ben sviluppato un negativo, lo si suddivide in spezzoni tali che la lunghezza non superi la larghezza di un foglio 24x30cm (p.es. un 36 pose 135 verrà tagliato in 7 strisce da 6 fotogrammi)e sarà così possibile stampare “a contatto” un intero rullino su un normale foglio di carta da stampa.
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Ovviamente l’ingranditore dovrà essere posizionato per coprire l’intera area di stampa e il fuoco fatto con un qualsiasi negativo su di essa; particolare attenzione dovrà essere posta per la giusta esposizione: naturalmente la stampa delle parti esterne dei fotogrammi dovrà risultare completamente nera, ma per avere dei buoni risultati, soprattutto in funzione della carta utilizzata, bisognerà all’inizio effettuare alcune prove a diverse esposizioni, magari utilizzando ritagli più piccoli dei fogli di carta.
La stampa del provino, sviluppo e fissaggio, avviene esattamente come per la stampa di una singola fotografia.
I provini così ottenuti permettono di avere un colpo d’occhio immediato sui fotogrammi scattati, di avere una serie di informazioni utili per la scelta della stampa finale (dettagli nelle ombre e nelle luci, il contrasto del negativo, controllare il fuoco con un lentino, studiare tagli d’inquadratura, ecc.). Inoltre su di essi si possono segnare dei commenti, barrando quei fotogrammi da non stampare o evidenziando i migliori e financo porre dei lunghi appunti sul retro.
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Ma poi i provini così ottenuti, come le foto più belle, passeranno alla storia poiché anche essi significativi; insieme agli spezzoni di negativo riposti negli appositi fogli di porta-negativi, saranno facilmente archiviabili e altrettanto facilmente potranno essere, in futuro, rintracciati, rivisti, consultati e fatti vedere!

“Estrarre una buona fotografia da un foglio di provini è come scendere in cantina e prendere una buona bottiglia da condividere”
(Henri Cartier-Bresson)

Camera oscura: brevi considerazioni sulla stampa

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Nella pratica fotografica, la prima fase creativa riguarda la preparazione e lo scatto vero e proprio. E’ la fase che più attrae, coinvolge, appassiona fino a spingere a levatacce o a scatti senza sosta o a trascinarsi pesanti borse zeppe di macchine e accessori.
A questa segue poi la seconda fase creativa della fotografia, in camera oscura, quando, una volta impressionato e sviluppato correttamente il negativo, si passa alla stampa, che è quella spesso capace di trasformare una semplice fotografia in un’immagine speciale.
Stampare non è difficile, ma occorre un minimo impegno e un po’ di pratica.
Una volta scelta l’immagine da utilizzare (parleremo più avanti diffusamente dei “provini”), bisogna deciderne il taglio e, soprattutto, capire bene come stampare l’immagine finale, tenendo conto dell’attrezzatura disponibile.
Bisogna sapere che gli errori commessi durante l’esposizione non possono essere più corretti. Solo l’esperienza consente di valutare “a occhio” la durata dell’esposizione che una negativa richiede per effettuare la stampa. Molti sono diventati bravi stampatori “a occhio”… commettendo tanti errori e sprecando molta carta sensibile; è un metodo che riesce spontaneo a tutti, ma dà i suoi frutti soltanto dopo molto tempo.
Per procedere correttamente è invece opportuno riuscire fin dall’inizio a stabilire la corretta esposizione della carta tenendo ben presente i seguenti fattori:
1) iI rapporto d’ingrandimento
2) la gamma di contrasto della negativa
3) la sensibilità della carta
4) la potenza di luce dell’ingranditore
5) iI diaframma dell’obiettivo
Per quanto riguarda il rapporto d’ingrandimento, bisogna soprattutto tener conto che il tempo di posa aumenta proporzionalmente con esso, ossia se per un ingrandimento 13×18 è richiesta una posa di 4 sec., per il formato 18×24 l’esposizione dovrà essere circa il doppio.
Tutti gli elementi che regolano la riuscita di una buona fotografia non si imparano di colpo, ma vengono dettati gradualmente dall’esperienza.
E’ anche opportuno ricordare che le migliori fotografie sono solitamente quelle che si stampano dopo un certo periodo di permanenza al buio, perché quando si è entrati da poco in camera oscura potrebbero influire sul risultato alcuni errori di apprezzamento dovuti al fatto che l’occhio non si è ancora abituato alla luce di sicurezza e, quindi, non è in grado di giudicare bene il contrasto di una stampa.

Pota!

Pota! … non è solo un’esclamazione..

Il POTA è uno sviluppo … che più morbido non si può!
Si prepara con 1,5 gr di Fenidone e 30 gr di sodio solfito anidro in un litro di acqua distillata. Si adopera e poi si butta via perchè non dura. I risultati di questa accoppiata non hanno uguale sia per finezza di grana che per acutanza, anche se la sensibilità della TP 2415 è di 25 ASA. Se l’ottica è buona, un ingrandimento dal 24×36 su carta 18×24 cm è indistinguibile da un 18×24 cm ottenuto per ingrandimento da un 6×9!
La Kodak, oltre a vendere la pellicola, vende il Technidol LC, che ha caratteristiche molto simili al POTA. Alcuni preferiscono sviluppare la 2415 in POTA per 12′ anzichè per i 10′ consigliati.

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